Via Assisi  6                                   10149 Torino



 

     

 

LEMMARIO: LA VERITA'
 Intervento al LFLP 28 settembre 2004

A cura di Ernesto Riva

 

Questa sera vorrei dirvi qualcosa sul concetto di verità come si è sviluppato nella antica Grecia.

 

Pensate che Platone stesso, che è alle origini della filosofia occidentale, ebbene, egli stesso guardava già al passato con venerazione perché riteneva che i veri sapienti fossero esistiti molto tempo prima di lui; non per nulla egli  si definiva “filo-sofo” (amante della sapienza) e non "-sofo" cioè sapiente. La sua ricerca viene da lui chiamata “filosofia” per una forma di rispetto verso i sapienti del passato, mentre lui era  un ricercatore e non un possessore della sapienza.

Come era visto, allora, il sapiente? Il sapiente era colui che gettava luce nell'oscurità, colui che scioglieva gli enigmi, colui che manifestava l'ignoto e precisava l'incerto. Solo colui che scioglie l'enigma può salvare se stesso: la conoscenza è l'istanza ultima, rispetto alla quale si combatte la lotta suprema da parte dell'uomo. L'arma decisiva è la sapienza. E la lotta è mortale. Si pensi al mito della Sfinge: essa, mostro in forma di leonessa alata col volto da donna, proponeva a tutti un enigma e uccideva chi non fosse riuscito a rispondere esattamente. Solo Edipo riuscì a risolverlo. Il sapiente è dunque colui che riesce a capire qualche cosa che appartiene in genere all'ambito del divino, del misterioso, qualcosa che è nascosto agli uomini. La verità, in altri termini, appartiene all'ambito del divino e non è data agli uomini se non in momenti o in luoghi particolari. Si pensi agli oracoli dell'antichità. L'oracolo di Delfi, forse il più famoso della Grecia, quando era interrogato dagli uomini, non diceva tutto apertamente ma neppure nascondeva del tutto: parlava accennando. L'oscurità del responso dell'oracolo alludeva al divario enorme che vi è tra la sfera dell'umano e quella del divino. Gli dèi, a quanto pare, amano gli enigmi e all'uomo non rimane altro che stare al gioco e cercare di svelarli. Gli dèi accennano all'uomo di stare in guardia quando vuole conoscere la verità, giacché la sfera divina è sconfinata, insondabile, terribile per l'uomo, e l'unica manifestazione sopportabile per l'uomo è data dalla parola, parola che però, per essere appunto accettabile da parte dell'uomo, è necessariamente enigmatica e densa di un significato nascosto. Inoltre la manifestazione della parola nel mondo umano non può che essere una norma di invito alla moderazione, al controllo, al limite, giacché la parola è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con la sfera umana e si manifesta nella udibilità, cioè in una condizione sensibile, adatta all'uomo. Il sapiente è allora colui che riesce a cogliere la parola divina, colui che riesce a cogliere la sua verità e cerca di trasmetterla agli altri uomini. La filosofia nascerà come attività a sé quando diventerà quella parola che poggia esclusivamente su di sé, e che quindi non ha bisogno di fondarsi sulla autorità di chi parla (gli dèi o l'oracolo come nel pensiero mitico-religioso-sacro) e neppure sulla forza persuasiva della retorica che, con la deduzione, riesce a riscuotere dei consensi(lo vedremo quando parleremo dei Sofisti e di Socrate). In altri termini, la filosofia vorrà essere l'imporsi di ciò che si manifesta così come si manifesta, cioè della a-letheia, della verità. In greco a-letheia è il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone a tutti, è da tutti riconosciuto come vero . La verità filosofica non sarà, d'ora in poi, una semplice descrizione, come nella narrazione mitica, ma un sapere fondato e incontrovertibile, cioè tale che nessuna divinità e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza o la quantità delle loro argomentazioni, potrà mai confutarlo.

 

Abbiamo però ancora un’altra concezione di verità, sempre in quel periodo: si tratta di quella dei Sofisti. Tutti ricordiamo il relativismo di Protagora. Ma Platone fa dire ad un personaggio del Gorgia, Trasimaco – che la giustizia non è altro che l'utile del più forte. La legge insomma legalizza la sopraffazione. Leggi e divinità non sono altro che gli strumenti inventati dal legislatore per costruire l'inganno capace di ridurre ad ordine, attraverso la punizione e la paura, una natura umana, priva, in sé stessa, di ogni moralità e socialità. Non basta: Per Callicle, le leggi, le convenzioni, i valori morali sono invenzioni dei deboli - la maggioranza - per impedire ai pochi, ai forti, di realizzare la superiorità che li caratterizza per natura. Infatti la natura mostra, in ogni sua manifestazione, che i migliori prevalgono ed i peggiori soccombono. Ma i migliori sono coloro che si mostrano capaci di soddisfare passioni e desideri, di aderire alla natura e di vivere secondo le sue leggi, spezzando le catene imposte dalle convinzioni. Se la natura deve comandare, in questo comando è però iscritta la superiorità di alcuni, non è l'eguaglianza di tutti.    

 

 

   Bibliografia: www.filosofiaedintorni.net

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
   
 
 
   
 
 
   
   
   

 

 
 

 

 

 

 
     

 

home| perché laboratorio| storia del laboratorio|attività dell'anno| libertà di psicologia| pubblicazioni| archivio|
comitato scientifico| la rete| contatti| ostello dell'anima | ultimi lavori |

 

 

 

copyright © 2005 edizioni illaboratorio Torino